domenica 30 gennaio 2011

Contributi alla memoria: "Ricordare non basta" di Raffaele Mantegazza + intervista a Marco Paolini: «T4, e quella brava gente che accettò la soppressi

di Raffaele Mantegazza* (Liberazione del 27 gennaio 2011)

Potrebbe sembrare inopportuno e provocatorio, in occasione della Giornata della Memoria, affermare e sottolineare i limiti del ricordare; ma credo che proprio in questo momento di riflessione che ormai da anni dedichiamo alle vittime della Shoà occorra interrogarsi sul valore politico e pedagogico della memoria; un valore che non possiamo pensare sia implicito o sottinteso. Poco prima di morire tragicamente Primo Levi aveva avanzato la proposta di ripensare all’utilità dei viaggi ad Auschwitz rivolti ai ragazzi e alle ragazze. Proprio in quanto ex-deportato, l’autore torinese vedeva i limiti di questi viaggi proprio nel loro essere spesso una mera operazione ritualistica, che non andava a toccare nel profondo le coscienze e le sensibilità degli adolescenti: una gita scolastica, dunque, con una giornata di visita al campo nella quale, quando andava bene, i ragazzi atteggiavano il loro viso al cordoglio e alla tristezza. E nient’altro, o quasi. Queste operazioni, come tutte le altre occasioni nelle quali ricordare le vittime si limita a un ritualistico e distratto omaggio retorico, non solo sono inutili ma fanno il gioco proprio di coloro che vorrebbero che si dimenticasse. Non è un caso che negli ultimi anni, non solo in Italia, la Shoà sia entrata nel dibattito pubblico come strumento politico, spesso brandito proprio da quelle forze che fino a non molti anni fa erano al fianco, più o meno ammicanti, delle varie riedizioni del revisionismo. Oggi la memoria della Shoà viene anche usata strumentalmente per stigmatizzare i comportamenti di capi politici, soprattutto del mondo islamico, che di volta in volta sarebbero il “nuovo Hitler”; non si vede però all’orizzonte un discorso sulla Shoà che ne evidenzi il carattere di attualità nel suo aver realizzato un connubio tra tecnologia e potere, nel suo avere lentamente e gradualmente esautorato ogni diritto delle minoranze e ogni discorso a loro favore, nel suo avere sterminato, a fianco degli ebrei e delle ebree, comunisti e democratici, rom e testimoni di Geova, omosessuali e oppositori politici. La Shoà parla di noi: di noi come esseri umani, di noi che alberghiamo nella nostra coscienza il mostro che è pronto a rinascere quando qualche manipolatore politico riesce a legittimarne gli impulsi, di noi che vediamo continuamente disegnarsi attorno a noi la zona grigia dei collaboratori del dominio, degli ottusi funzionari pronti ad obbedire ad ogni ordine, dei cortigiani proni a qualunque desiderio del Principe di turno e ciechi e sordi nei confronti di ogni pensiero critico.
Ma la Shoà parla di noi anche e soprattutto perché le procedure e le strategie dello sterminio non sono state annientate dalla straordinaria forza di resistenza che spazzò via il nazifascismo. Posti a sedere differenziati per lombardi doc sulle metropolitane; maiali portati a urinare sul terreno sul quale deve sorgere una moschea; asili nido vietati ai figli degli immigrati clandestini; medici e dirigenti scolastici ridotti a spie per denunciare il clandestino che si fa curare o frequenta la scuola. Chi non vede in queste proposte, per ora semplicemente buttate lì “per vedere l’effetto che fa”, disegnarsi un piano che ovviamente non porterà allo stesso risultato ottenuto dall’hitlerismo ma certamente va a pescare nella stessa zona torbida di emozioni, rabbie, irrazionalità?
Dunque ricordare non basta; è un dovere civico e morale, nonché politico, ma non può essere la conclusione o la finalità di un percorso educativo, bensì ne deve essere l’inizio. Partiamo dalla memoria per farne uno strumento di cambiamento e di denuncia nei confronti di una dimensione del Male che è ancora tra noi: non solo nelle proposte di movimenti razzisti o di politici antidemocratici ma nelle nostre vite quotidiane, al bar come in stazione, a scuola come in piazza, “stando in casa e andando per via”; un Male che si nutre dell’umiliazione del diverso di turno, del pestaggio dell’omosessuale, dell’insulto al maghrebino, della violenza alla donna, del quartiere sempre meno a misura di bambino e di bambina. C’è una memoria appassita e sfiorita, una memoria che non interroga più nessuno, che non smuove più alcun sentimento; e c’è una poesia della memoria, una sua forza creativa, che riesce addirittura a far nascere nuovi modi di vivere insieme, nuove politiche, nuovi esseri umani. Per questo, di fronte alle memorie dei deportati e delle deportate, non basta aprire la porta alle emozioni, troppo spesso lasciate a se stesse e dunque inutili; dal mondo emotivo la memoria deve passare all’universo della ragione, della critica, della politica. Nella poesia della memoria, allora, il passato sfocia nel futuro, il ricordo abbraccia il progetto, la nostalgia sposa l’utopia: ricordare non basta se non è l’inizio di una azione politica per costruire un diverso futuro; anzi, è addirittura dannoso se è solamente un vuoto rituale, che ci aiuta a chiudere gli occhi sulle violenze di oggi, che rischiano domani di non avere nemmeno l’onore di una giornata di riflessione tutta per loro.

di Raffaele Mantegazza (tratto dal quotidiano di Prc Liberazione del 27

gennaio 2011)

"Ausmerzen, Vite indegne di essere vissute".
Attorno a questo concetto ruotano ricerche ed esperimenti di eugenetica che portarono nella Germania nazista ad applicare prima la sterilizzazione forzata poi verso la "soluzione finale" contro popoli interi e persone. Una pagina orrenda della storia tedesca che Marco Paolini, uno dei migliori autori e interpreti del teatro di impegno civile italiano, porta il 26 gennaio, sulla Sette, in Tv e in prima serata, peraltro senza interruzioni pubblicitarie.
Cosa si prova di fronte a tutto il materiale con cui si tentava di giustificare scientificamente sterilizzazione e eliminazione di massa?
Confesso che lo sgomento più grande non è nato in me quando abbiamo iniziato a studiare molti materiali più o meno scientifici, più o meno propagandistici, che sostenevano le tesi dell'eugenetica. Sono teorie che oggi una larga maggioranza di noi trova allucinanti e che non risultano condivisibili in nessun contesto democratico contemporaneo, ma che pure hanno qualche utile idiota che le caldeggia e che ci serve da promemoria per non dimenticare quelle aberrazioni. Mi ha colpito però profondamente la penetrazione, tutt'altro che coercitiva in senso stretto, che quelle idee hanno avuto nella "brava gente" che le ha fatte proprie. La temperie culturale ha reso normale ogni teoria eugenetica, ha reso accettabile ogni azione destinata ad un fine condiviso. Ecco perché Ausmerzen, perché tanta "brava gente" ha accettato belando che i deboli, i difettati, i diversi fossero accompagnati all'eutanasia perché le loro vite erano "indegne di essere vissute"».
La scelta di avvicinarsi alla Giornata della Memoria con un tema difficile appare molto coinvolgente dal punto di vista emotivo. Che lavoro di ricerca c'è stato in questi due anni?
Il lavoro è iniziato su sollecitazione di mio fratello Mario, che da anni lavora come educatore con i portatori di handicap. Lui e lo storico Giovanni De Martis (presidente dell'Associazione Olokaustos di Venezia) hanno raccolto i primi materiali, hanno incontrato psichiatri e testimoni dell'Aktion T4. Poi abbiamo proseguito insieme, costruendo un percorso. L'idea iniziale era di farne un documentario, che non si è mai compiuto. Invece è nato questo racconto, che mette insieme le testimonianze, gli studi, l'approfondimento sul contesto storico. Quello che abbiamo cercato di capire, in fondo, è come sia stato possibile arrivare ad un'operazione così efficace e capillare.
La cronaca, la necessità di narrare i temi che ti colpiscono possono avere una funzione taumaturgica o quanto meno costringere a riflettere?
Non mi passa per la mente l'idea di essere un taumaturgo, sarebbe assurdo quanto e più di ogni visione taumaturgica della scienza, della politica, dell'economia che troppo spesso ci viene somministrata dagli imbonitori di settore. Senza dubbio l'intento è invece quello di riflettere.
Ci sono analogie tra quella fase storica e il periodo che stiamo vivendo adesso?
Io non voglio fare il determinista, ma rilevo che oggi come allora ci troviamo nel mezzo di una crisi che ha impoverito quasi tutti e che costringe a fare delle scelte spesso dolorose. Se non ci sono soldi, si può scegliere di diminuire il numero degli insegnanti di sostegno, si può scegliere di investire meno sull'inclusione dei "diversi" e delle fasce deboli. Più ancora della morte, delle camere a gas, credo che questa storia ci debba toccare perché obbliga a guardare negli occhi le scelte che una società compie o non compie.
Spesso nei tagli al welfare si parla tranquillamente dell'idea che ad alcune categorie di persone vada riservata al massimo la carità: portatori di handicap, anziani non autosufficienti, rom, senza fissa dimora, immigrati ecc.. Pur nella diversità queste cose hanno a che fare con i temi trattati in "Ausmerzen"?
Certo, ma non ne parlo in questo racconto. Tutti ascoltando questa storia di 70 anni fa sono portati a interrogarsi su chi sono le vittime di altre discriminazioni, senza dimenticare le pulizie etniche ispirate da idee eugenetiche che hanno colpito i Balcani in tempi molto più vicini a noi. Gli esempi sono tanti ma per raccontare una storia non si deve fare un fascio di storie.
La parola "eguaglianza" può ancora suggerire un'idea diversa di società, come antidoto a quanto enunciato in precedenza?
Si. L'eguaglianza può e dovrebbe accompagnare la Libertà. Le società egualitarie senza libertà sono un parto mostruoso della storia passata, le democrazie piene di libertà ma senza uguaglianza son un problema drammatico del nostro presente.
Anche la scelta di rappresentare "Ausmerzen" in un ex ospedale psichiatrico vuole richiamare ad un discorso eterno sulle "differenze inaccettabili"?
Non c'è niente di eterno. I manicomi hanno poco più di un secolo di vita e l'Italia è l'unico Paese che si sia dotato di una riforma coraggiosa per chiuderli e inserire nella società che vi era ricoverato. Il Paolo Pini di Milano è quindi un ex manicomio ed è oggi un luogo aperto, dove vivono ancora alcuni vecchi ospiti del manicomio, ma con i cancelli aperti. Quel luogo ci piaceva, lo conosciamo bene e offrirà un contesto giusto per aiutare chi guarda da casa a inquadrare l'argomento.
Per chi ha questi strumenti di rielaborazione, che valore ha la parola memoria?
Ha valore in quanto memoria viva e attiva, in quanto confronto non iconografico con il passato. Ricordare significa in qualche modo allontanare. Per questo non sopporto le ricorrenze e il Giorno della memoria mi ha sempre fatto l'effetto di un santo laico sul calendario. Mi sembra che ogni ricorrenza sia l'excusatio non petita per un momento storico o per un problema che si ha paura di dimenticare. E' questo che non mi piace, l'ammissione di una rimozione possibile. E il bisogno di attaccarsi a delle occasioni per usare il pensiero. Nel racconto di Ausmerzen ci sono troppe cose che suonano come umane, come possibili nel presente. Il rischio era di pensare: «erano nazisti, hanno fatto cose terribili». Invece i protagonisti principali del racconto sono le "brave persone" che nelle loro case facevano vite normali, sono i medici di famiglia che hanno aiutato il pensiero dominante a trasformarsi in azione di sterminio. Questo non ha niente a che fare con una memoria chiusa nei libri, ma convoca l'umanità che è in noi a confrontarsi con la possibilità che nella società le "brave persone" normali possano fare cose terribili».
In Germania, i tentativi di fare i conti col passato ci sono stati. Da noi molto meno, dal colonialismo alle leggi razziali. Quanto pesa questo sulla percezione di "sé" che si ha in Italia, sul mito insomma degli "italiani brava gente"?
In Germania il "progetto eugenetico" è iniziato molto prima dell'Olocausto e della "soluzione finale", è iniziato prima della guerra ed è finito dopo che la guerra era finita. E dopo il processo (un filone "minore" del processo di Norimberga) una delle protagoniste, soprannominata "l'angelo della morte", ha fatto la pediatra per tutta la vita. E le condanne al processo sono state lievi, a conferma del fatto che la dimensione della responsabilità personale era stata in parte scavalcata da una responsabilità collettiva e storica.
In realtà i conti con il passato li ha fatti la generazione dopo. Hanno fatto i conti e hanno tirato fuori tutto, senza nascondersi dietro agli alibi. E' stata una presa di coscienza durissima. Questo in Italia mi sembra non sia avvenuto, o almeno non sia avvenuto compiutamente. A me sembra che la mia generazione si sia divisa tra nostagici di qualcosa che non avevano vissuto e partigiani di una lotta che non avevano fatto. Per un periodo si è anche discusso molto, poi basta, come se quel che è successo dopo ci avesse reso più tranquilli, più appagati del presente e meno curiosi anche degli errori del passato.
Un tema che nel nostro dibattito ricorre in continuazione è nel nesso fra rimozione della memoria e diminuzione degli spazi democratici. L'autoassoluzione che ci siamo dati corrisponde anche a queste coordinate?
Probabilmente è così, ma credo che la domanda vada posta a uno studioso di sociologia o di filosofia politica. Solo un'osservazione: se la diminuzione degli spazi democratici è una scelta e non un'imposizione, forse c'è un problema più profondo. E forse è vero, può stare nella perdita di memoria e di prospettiva nella valutazione dei rischi
intervista di Stefano Galieni (tratto dal quotidiano di Prc Liberazione del 25 gennaio 2011)

mercoledì 19 gennaio 2011

Vi segnaliamo questi 2 editoriali di Liberazione dopo il referendum di Mirafiori

Uomini in carne e ossa di Antonio Gramsci

Questo articolo si riferisce agli avvenimenti della primavera 1921, quando a Torino, in seguito all'annunciato licenziamento di più di mille operai, le maestranze Fiat e Michelin entrano in sciopero. Gli industriali rispondono con la serrata degli stabilimenti e l'agitazione si conclude, agli inizi di maggio, con la sconfitta delle organizzazioni sindacali e il licenziamento di più di 3.500 lavoratori
Antonio Gramsci
Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana.
Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese.
Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese.
Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c'è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità dell'esistenza, che ha la responsabilità dell'esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare più di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire.
Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese.
Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. E' stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell' "Ordine Nuovo" abbiamo incessantemente mosso alle centrali del movimento operaio e socialista: non abusate troppo della resistenza e della virtù di sacrificio del proletariato; si tratta di uomini comuni, uomini reali, sottoposti alle stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che hanno fame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le loro donne.
Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti. Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione più reale, a una pratica più congrua e più adeguata allo svolgersi degli avvenimenti. Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell'inettitudine e della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l'urto dell'avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c'è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi.
Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all'avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.
(da "L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1921)

A Marchionne un no chiaro ed inequivocabile

di Giorgio Cremaschi

Con le lacrime agli occhi, di gioia stavolta, i lavoratori italiani hanno accolto il voto di Mirafiori. Al di là di qualche piccolo escamotage dell'ultima ora oramai è chiaro che la maggioranza degli operai non ha detto sì a Marchionne e che la netta maggioranza di coloro che subiscono il più duro attacco alle condizioni di lavoro, gli addetti ai montaggi e alla lastroferratura ha detto un no chiaro ed inequivocabile. Il sì passa sostanzialmente per la valanga di voti favorevoli degli impiegati che, come da tradizione in Fiat, hanno deciso che era giusto che gli operai lavorassero a condizioni che essi non subiranno mai.
La portata immediata di questo voto è enorme. Questo vuol dire che il disegno di Marchionne di cancellare la libertà e l'autonomia del lavoro in fabbrica è, allo stato attuale, privo del consenso e della forza necessaria per affermarsi. Le tante mosche cocchiere politiche e sindacali possono anche affrettarsi a dire che ha vinto il sì, ma Marchionne sa perfettamente di avere perso. Ora si apre la via per mettere in discussione questo accordo. C'è il tempo necessario anche perché ai lavoratori a cui è stata chiesta una rinuncia preventiva a tutto, spetta ancora un anno di cassaintegrazione. Altro che i 3.500 euro in più.
Bisogna costruire una risposta sindacale, politica e giuridica, vista la quantità di violazioni di leggi e diritti che sono contenuti nelle clausole capestro dell'accordo. Ma ancora più grande è la portata di fondo di questo voto. Il no degli operai di Mirafiori ci dice che la politica del lavoro usa e getta, la negazione di piani industriali seri e credibili, l'assenza di reali programmi per il futuro, non possono più essere spacciati come la modernità che risolve la crisi.
Si è creato lo spazio oggi per costruire un programma economico e sociale alternativo a quello di Marchionne e del liberismo selvaggio e per sostenerlo con un grande movimento di lotta.
Il no degli operai di Mirafiori parla a tutto il mondo del lavoro che non vuol più piegare la testa, parla ai giovani e agli studenti, a tutti i movimenti. Questo no dice a tutti che è possibile respingere il ricatto e incrinare quel regime di ingiustizie e sopraffazione che solo sul ricatto fonda la sua forza. Il no degli operai di Mirafiori parla alla Cgil e le chiede con chiarezza di mettersi a fianco di tutti i movimenti di lotta e di programmare finalmente quello sciopero generale che è oramai nell'ordine delle cose. Infine questo no parla alla politica. Le anime morte della sinistra che hanno spiegato al mondo che come operai di Mirafiori avrebbero votato sì, oggi si identificano solo con il voto degli impiegati. La sinistra che non capisce più gli operai e la questione sociale e che si innamora di ogni Marchionne che le vende modernità a basso costo, ha finito il suo percorso nel nostro Paese. Gli operai di Mirafiori chiedono di essere rappresentati da altro.
Infine è giusto che tutti e tutte noi ringraziamo i militanti della Fiom e del sindacalismo di base, le loro Rsu che a Mirafiori, contro tutto il regime mediatico e tutte le intimidazioni, hanno creduto in questa battaglia. Certo grandi sono i meriti della Fiom, e provo orgoglio nel ricordarli. Ma so anche che il merito principale di questa organizzazione è quello di essere in sintonia con quella parte crescente del nostro Paese che non ha più voglia di piegare la testa e che considera che il regime del ricatto nel nome del profitto non sia più socialmente e moralmente tollerabile.
Così il no degli operai di Mirafiori accompagna un'altra grande buona notizia. Il successo della prima rivoluzione del ventunesimo secolo: quella dei giovani e degli operai tunisini che hanno travolto la dittatura che li opprimeva. Proprio in queste settimane la Tunisia, assieme alla Serbia, era diventata uno di quei paesi utilizzati per spiegare agli operai italiani che debbono rinunciare a tutto altrimenti lì va a finire il loro lavoro. Come si vede anche questi ricatti alla fine hanno una prospettiva corta perché tutto il mondo comincia a ribellarsi al supersfruttamento dell'economia globalizzata. E proprio in questi giorni, anche in Serbia, gli operai stanno scioperando contro i ricatti della Fiat. Grazie operai e operaie di Mirafiori, con voi oggi ci sentiamo tutti più liberi e un po' più forti. Ci ritroveremo subito tutti assieme in piazza il 28 gennaio.

Vi segnaliamo questi 2 editoriali di Liberazione dopo il referendum di Mirafiori

Uomini in carne e ossa di Antonio Gramsci

Questo articolo si riferisce agli avvenimenti della primavera 1921, quando a Torino, in seguito all'annunciato licenziamento di più di mille operai, le maestranze Fiat e Michelin entrano in sciopero. Gli industriali rispondono con la serrata degli stabilimenti e l'agitazione si conclude, agli inizi di maggio, con la sconfitta delle organizzazioni sindacali e il licenziamento di più di 3.500 lavoratori
Antonio Gramsci
Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana.
Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese.
Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese.
Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c'è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità dell'esistenza, che ha la responsabilità dell'esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare più di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire.
Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese.
Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. E' stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell' "Ordine Nuovo" abbiamo incessantemente mosso alle centrali del movimento operaio e socialista: non abusate troppo della resistenza e della virtù di sacrificio del proletariato; si tratta di uomini comuni, uomini reali, sottoposti alle stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che hanno fame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le loro donne.
Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti. Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione più reale, a una pratica più congrua e più adeguata allo svolgersi degli avvenimenti. Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell'inettitudine e della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l'urto dell'avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c'è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi.
Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all'avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.
(da "L'Ordine Nuovo", 8 maggio 1921)

A Marchionne un no chiaro ed inequivocabile

di Giorgio Cremaschi

Con le lacrime agli occhi, di gioia stavolta, i lavoratori italiani hanno accolto il voto di Mirafiori. Al di là di qualche piccolo escamotage dell'ultima ora oramai è chiaro che la maggioranza degli operai non ha detto sì a Marchionne e che la netta maggioranza di coloro che subiscono il più duro attacco alle condizioni di lavoro, gli addetti ai montaggi e alla lastroferratura ha detto un no chiaro ed inequivocabile. Il sì passa sostanzialmente per la valanga di voti favorevoli degli impiegati che, come da tradizione in Fiat, hanno deciso che era giusto che gli operai lavorassero a condizioni che essi non subiranno mai.
La portata immediata di questo voto è enorme. Questo vuol dire che il disegno di Marchionne di cancellare la libertà e l'autonomia del lavoro in fabbrica è, allo stato attuale, privo del consenso e della forza necessaria per affermarsi. Le tante mosche cocchiere politiche e sindacali possono anche affrettarsi a dire che ha vinto il sì, ma Marchionne sa perfettamente di avere perso. Ora si apre la via per mettere in discussione questo accordo. C'è il tempo necessario anche perché ai lavoratori a cui è stata chiesta una rinuncia preventiva a tutto, spetta ancora un anno di cassaintegrazione. Altro che i 3.500 euro in più.
Bisogna costruire una risposta sindacale, politica e giuridica, vista la quantità di violazioni di leggi e diritti che sono contenuti nelle clausole capestro dell'accordo. Ma ancora più grande è la portata di fondo di questo voto. Il no degli operai di Mirafiori ci dice che la politica del lavoro usa e getta, la negazione di piani industriali seri e credibili, l'assenza di reali programmi per il futuro, non possono più essere spacciati come la modernità che risolve la crisi.
Si è creato lo spazio oggi per costruire un programma economico e sociale alternativo a quello di Marchionne e del liberismo selvaggio e per sostenerlo con un grande movimento di lotta.
Il no degli operai di Mirafiori parla a tutto il mondo del lavoro che non vuol più piegare la testa, parla ai giovani e agli studenti, a tutti i movimenti. Questo no dice a tutti che è possibile respingere il ricatto e incrinare quel regime di ingiustizie e sopraffazione che solo sul ricatto fonda la sua forza. Il no degli operai di Mirafiori parla alla Cgil e le chiede con chiarezza di mettersi a fianco di tutti i movimenti di lotta e di programmare finalmente quello sciopero generale che è oramai nell'ordine delle cose. Infine questo no parla alla politica. Le anime morte della sinistra che hanno spiegato al mondo che come operai di Mirafiori avrebbero votato sì, oggi si identificano solo con il voto degli impiegati. La sinistra che non capisce più gli operai e la questione sociale e che si innamora di ogni Marchionne che le vende modernità a basso costo, ha finito il suo percorso nel nostro Paese. Gli operai di Mirafiori chiedono di essere rappresentati da altro.
Infine è giusto che tutti e tutte noi ringraziamo i militanti della Fiom e del sindacalismo di base, le loro Rsu che a Mirafiori, contro tutto il regime mediatico e tutte le intimidazioni, hanno creduto in questa battaglia. Certo grandi sono i meriti della Fiom, e provo orgoglio nel ricordarli. Ma so anche che il merito principale di questa organizzazione è quello di essere in sintonia con quella parte crescente del nostro Paese che non ha più voglia di piegare la testa e che considera che il regime del ricatto nel nome del profitto non sia più socialmente e moralmente tollerabile.
Così il no degli operai di Mirafiori accompagna un'altra grande buona notizia. Il successo della prima rivoluzione del ventunesimo secolo: quella dei giovani e degli operai tunisini che hanno travolto la dittatura che li opprimeva. Proprio in queste settimane la Tunisia, assieme alla Serbia, era diventata uno di quei paesi utilizzati per spiegare agli operai italiani che debbono rinunciare a tutto altrimenti lì va a finire il loro lavoro. Come si vede anche questi ricatti alla fine hanno una prospettiva corta perché tutto il mondo comincia a ribellarsi al supersfruttamento dell'economia globalizzata. E proprio in questi giorni, anche in Serbia, gli operai stanno scioperando contro i ricatti della Fiat. Grazie operai e operaie di Mirafiori, con voi oggi ci sentiamo tutti più liberi e un po' più forti. Ci ritroveremo subito tutti assieme in piazza il 28 gennaio.